Storia

La sua storia, si può dire, è millenaria. La prima citazione accertata risale ad un cartario medioevale del 1153: «iuraverunt illi de Montebore dare ad Ramolivam proximam ex terris Marchionis Malespini robiolinas centum» (quelli di Montèbore giurarono di dare alla vicina Ramoliva, proprietà del Marchese Malaspina, cento robioline). Ramoliva è una località presso il paese di Garbagna, in val Grue.
Tra le testimonianze successive, alla fine del Quattrocento è l’unico formaggio presente nella famosa ed importante citazione del "celebre formaggio di Tortona" nelle cronache delle celebrazioni nuziali per l'unione tra Isabella di Aragona e Gian Galeazzo Sforza, figlio del Duca di Milano. Matrimonio organizzato a Tortona nel 1489 da un cerimoniere d'eccezione: Leonardo da Vinci. Questa storia illustre prosegue e arriva a fine Ottocento, quando Aristide Arzano - animatore delle vita culturale e sociale tortonese - cita i robiolini freschi di Montèbore.
Nella prima metà del XX secolo se ne producono ogni anno circa 1200 chili, poi la guerra spopola queste colline e le produzioni legate all'agricoltura iniziano a decadere scomparendo quasi del tutto in coincidenza della fine dell’evento bellico e con la ” fuga ” verso la pianura e le aree più industrializzate.
Tra le testimonianze successive, alla fine del Quattrocento è l’unico formaggio presente nella famosa ed importante citazione del "celebre formaggio di Tortona" nelle cronache delle celebrazioni nuziali per l'unione tra Isabella di Aragona e Gian Galeazzo Sforza, figlio del Duca di Milano. Matrimonio organizzato a Tortona nel 1489 da un cerimoniere d'eccezione: Leonardo da Vinci. Questa storia illustre prosegue e arriva a fine Ottocento, quando Aristide Arzano - animatore delle vita culturale e sociale tortonese - cita i robiolini freschi di Montèbore.
Nella prima metà del XX secolo se ne producono ogni anno circa 1200 chili, poi la guerra spopola queste colline e le produzioni legate all'agricoltura iniziano a decadere scomparendo quasi del tutto in coincidenza della fine dell’evento bellico e con la ” fuga ” verso la pianura e le aree più industrializzate.

Per secoli prodotto ed esportato verso Genova e la Lombardia, se ne era persa ogni traccia.
Poi nel 1997 con il Progetto di Filiera Casearia della Comunità Montana Valli Curone Grue Ossona e Valli Borbera e Valle Spinti, approvato dalla Comunità Europea, si è cercato di “ recuperare “ l’antico prodotto.
Attraverso una accurata ricerca in fase progettuale, il Montebore è stato letteralmente “resuscitato”, grazie ad alcune anziane signore della zona di Montebore e Calvadi, le due frazioni di Dernice, dove ultime depositarie della tecnica casearia tradizionale, avevano mantenuto il ” sapere ” dell’antica caseificazione della robiolina a tre strati, simile a una torre.
Nell’ambito del progetto, attraverso la loro esperienza e la collaborazione dell’Istituto Caseario di Moretta e della Facoltà di Agraria dell’ Università di Torino, si è ricostruita la tecnica casearia con caseificazioni comparative tra il latte delle ”tre specie” – bovino, ovino, caprino - e con l’ausilio dell’analisi sensoriale che ha riportato questo formaggio all’antico sapore.
Grazie all’iniziativa di due giovani produttori (in seguito diventati Cooperativa Agricola Valle Nostra) , nel 1999 il Montebore, presentato al salone "Cheese" nella sua totale produzione mondiale di 7 forme, attira l'attenzione della stampa specialistica dei cinque continenti. Una fama meritata, peraltro, per l’originalità di questo formaggio a latte crudo dalla forma unica (un tronco di cono a gradoni modellato sul rudere del castello di ” Folchetto Malaspina ” a Montebore: il “castellino”, appunto) e dal sapore antico, che può essere gustato fresco, semi - stagionato o da grattugia.
Finalmente, nella primavera 2001 il Progetto si è concluso con la definizione del ”disciplinare di produzione”, la costituzione del Consorzio di Tutela con alcuni produttori di latte del territorio, il deposito del ”Marchio Collettivo di Qualità”, e attraverso l’avvio delle prime trasformazioni, è rinato il Formaggio Montebore.
Poi nel 1997 con il Progetto di Filiera Casearia della Comunità Montana Valli Curone Grue Ossona e Valli Borbera e Valle Spinti, approvato dalla Comunità Europea, si è cercato di “ recuperare “ l’antico prodotto.
Attraverso una accurata ricerca in fase progettuale, il Montebore è stato letteralmente “resuscitato”, grazie ad alcune anziane signore della zona di Montebore e Calvadi, le due frazioni di Dernice, dove ultime depositarie della tecnica casearia tradizionale, avevano mantenuto il ” sapere ” dell’antica caseificazione della robiolina a tre strati, simile a una torre.
Nell’ambito del progetto, attraverso la loro esperienza e la collaborazione dell’Istituto Caseario di Moretta e della Facoltà di Agraria dell’ Università di Torino, si è ricostruita la tecnica casearia con caseificazioni comparative tra il latte delle ”tre specie” – bovino, ovino, caprino - e con l’ausilio dell’analisi sensoriale che ha riportato questo formaggio all’antico sapore.
Grazie all’iniziativa di due giovani produttori (in seguito diventati Cooperativa Agricola Valle Nostra) , nel 1999 il Montebore, presentato al salone "Cheese" nella sua totale produzione mondiale di 7 forme, attira l'attenzione della stampa specialistica dei cinque continenti. Una fama meritata, peraltro, per l’originalità di questo formaggio a latte crudo dalla forma unica (un tronco di cono a gradoni modellato sul rudere del castello di ” Folchetto Malaspina ” a Montebore: il “castellino”, appunto) e dal sapore antico, che può essere gustato fresco, semi - stagionato o da grattugia.
Finalmente, nella primavera 2001 il Progetto si è concluso con la definizione del ”disciplinare di produzione”, la costituzione del Consorzio di Tutela con alcuni produttori di latte del territorio, il deposito del ”Marchio Collettivo di Qualità”, e attraverso l’avvio delle prime trasformazioni, è rinato il Formaggio Montebore.

La curiosa forma, forse ”a torta nuziale” o forse ispirata dalla antica torre del paese, o forse da tutti e due i motivi, è data dalla sovrapposizione di tre robioline dal diametro decrescente. Viene prodotto con un 70% di latte crudo vaccino e con un restante 30% di latte ovino dove si possono trovare anche tracce di latte di capra; questo secondo l’antica tradizione allevatoriale del luogo, che cercava di sfruttare al massimo l’esiguo foraggio che si poteva ricavare dalla ” Rocca del timo di Montebore” attraverso il pascolamento turnato di diverse specie animali: vacche, pecore e capre appunto, che riuscivano a pascolare anche il foraggio più inappetibile.
L’esigua quantità di latte che si poteva ricavare dal pascolamento della ”comunaglia” (i prati messi in comune da tutte le famiglie del luogo) veniva poi suddiviso in parte per l’uso quotidiano fresco del latte: la parte di latte invece, che talvolta rimaneva, veniva quindi trasformato in cagliata e poi in formaggette, data l’assenza di mezzi di conservazione del latte crudo. Le formaggette per comodità e migliore conservazione, venivano poi riposte una sull’altra, dalla più grande alla più piccola, nelle piccole cantinette delle case del paese dando origine alla famosa forma.
L’esigua quantità di latte che si poteva ricavare dal pascolamento della ”comunaglia” (i prati messi in comune da tutte le famiglie del luogo) veniva poi suddiviso in parte per l’uso quotidiano fresco del latte: la parte di latte invece, che talvolta rimaneva, veniva quindi trasformato in cagliata e poi in formaggette, data l’assenza di mezzi di conservazione del latte crudo. Le formaggette per comodità e migliore conservazione, venivano poi riposte una sull’altra, dalla più grande alla più piccola, nelle piccole cantinette delle case del paese dando origine alla famosa forma.
È pronto per il consumo dopo 20 giorni ma può stagionare più a lungo se la forma è più grande e se asciuga meno. Un tempo, oltre i quattro mesi di stagionatura veniva usato grattugiato o era “cumudò”, che in dialetto vuol dire sminuzzato in vasetti di vetro con l'aggiunta di olio d'oliva e timo.
La razza bovina allevata era la cosiddetta Tortonese, una razza autoctona, probabilmente caparbiamente selezionata nel passato dai contadini più esperti, che hanno cercato di riprodurre la migliore razza per il loro territorio. Una razza di taglia medio piccola, a triplice attitudine : foraggio per il mantenimento in dosi minime, latte dall’animale adulto, carne a fine carriera, forza lavoro per tutta la sua vita.
Una vacca adatta ai pascoli del territorio, dal mantello fromentino (come quasi tutte le razze autoctone del settentrione d’Italia) , robusta, che dai 41 mila capi censiti nel 1960 si è ridotta in vent'anni circa a poche centinaia, spazzata via dalla ”green-revolution” degli anni ’50 .
La razza bovina allevata era la cosiddetta Tortonese, una razza autoctona, probabilmente caparbiamente selezionata nel passato dai contadini più esperti, che hanno cercato di riprodurre la migliore razza per il loro territorio. Una razza di taglia medio piccola, a triplice attitudine : foraggio per il mantenimento in dosi minime, latte dall’animale adulto, carne a fine carriera, forza lavoro per tutta la sua vita.
Una vacca adatta ai pascoli del territorio, dal mantello fromentino (come quasi tutte le razze autoctone del settentrione d’Italia) , robusta, che dai 41 mila capi censiti nel 1960 si è ridotta in vent'anni circa a poche centinaia, spazzata via dalla ”green-revolution” degli anni ’50 .

La razza bovina allevata era la cosiddetta Tortonese, una razza autoctona, probabilmente caparbiamente selezionata nel passato dai contadini più esperti, che hanno cercato di riprodurre la migliore razza per il loro territorio. Una razza di taglia medio piccola, a triplice attitudine : foraggio per il mantenimento in dosi minime, latte dall’animale adulto, carne a fine carriera, forza lavoro per tutta la sua vita.
Una vacca adatta ai pascoli del territorio, dal mantello fromentino (come quasi tutte le razze autoctone del settentrione d’Italia) , robusta, che dai 41 mila capi censiti nel 1960 si è ridotta in vent'anni circa a poche centinaia, spazzata via dalla ”green-revolution” degli anni ’50 .
Una vacca adatta ai pascoli del territorio, dal mantello fromentino (come quasi tutte le razze autoctone del settentrione d’Italia) , robusta, che dai 41 mila capi censiti nel 1960 si è ridotta in vent'anni circa a poche centinaia, spazzata via dalla ”green-revolution” degli anni ’50 .